Pandanews

consorzi di bonifica, politica ed ambiente: quale futuro per i fiumi?

I Consorzi di Bonifica hanno fatto parlare di sé negli ultimi tempi per le numerose contestazioni sul loro operato, ma anche sull’opportunità della loro stessa esistenza. Ha destato scalpore la presa di posizione del consiglio regionale che ha…

I Consorzi di Bonifica hanno fatto parlare di sé negli ultimi tempi per le numerose contestazioni sul loro operato, ma anche sull’opportunità della loro stessa esistenza. Ha destato scalpore la presa di posizione del consiglio regionale che ha recentemente votato una mozione per il superamento dei consorzi stessi.

I Consorzi di Bonifica, come fa capire la loro denominazione, sono nati molti decenni fa quando, per ottenere nuovi terreni agricoli, si attuava la bonifica delle paludi e si canalizzavano le loro acque, che coprivano ancora parti consistenti della Toscana, dalla pianura grossetana al comprensorio di Massaciuccoli, dalla Piana Fiorentina alla Valdichiana; fino al 2012 i Consorzi di Bonifica in Toscana erano 13 ed operavano su circa la metà del territorio regionale. Oggi però le loro funzioni sono cambiate: si tratta di strutture pubblico-private che sono state recentemente ridotte di numero e nuovamente regolamentate ed istituzionalizzate nel loro ruolo dalla legge regionale 79 del 2012, che istituisce 6 macroconsorzi che agiscono su tutto il territorio regionale; quindi non solo sulle aree palustri o canalizzate, ma su tutto il reticolo di fiumi, torrenti, ruscelli della Toscana.
Con la loro istituzione e finalizzazione viene introdotto anche un contributo consortile obbligatorio, che dovrebbe sostenere economicamente le attività di manutenzione ordinaria del reticolo idraulico, parte della manutenzione straordinaria e il funzionamento dei 6 consorzi stessi, che ad oggi contano oltre 500 dipendenti, oltre ai consulenti.
Un approccio operativo adatto fondamentalmente a territori molto abitati, fortemente antropizzati e spesso di origine artificiale in quanto derivanti da bonifica, viene esteso ad ambienti naturali, talvolta ancora selvaggi e privi di opere idrauliche.
Il dibattito e le proteste che ne sono scaturiti impongono un’analisi dell’operato dei consorzi e della visione che essi hanno e impongono, di ciò che sono e devono essere fiumi e torrenti.
I Consorzi di Bonifica hanno davvero un rapporto con il territorio? E’ davvero utile che enti operativi come i Consorzi abbiano anche la possibilità di pianificare come operare sui fiumi, con il solo “beneplacito” finale della Regione? Cosa che spetterebbe invece ad unente  superiore, di funzione esclusivamente pubblica e con competenze adeguate e specifiche, che abbia una visione d’insieme a scala perlomeno di bacino idrografico.
I Consorzi di fatto se la cantano e se la suonano: progettano manutenzioni e opere e poi le applicano sul territorio; Consorzi diversi fanno progetti diversi con visioni diverse. Ma chi pianifica su interventi che vanno a incidere sul territorio, sul patrimonio naturale e sul reticolo delle acque con tutti i loro ambienti diversi, dovrebbe avere competenze in molte e diverse discipline. Mentre nei Consorzi di Bonifica operano soprattutto geometri, ingegneri idraulici e pochi altri tecnici (qualche geologo e qualche agronomo). Naturalisti, biologi, ecologi, geomorfologi, paesaggisti, zoologi, botanici, che hanno competenze importanti in molti contesti, nei rari casi in cui vengono coinvolti laddove sussistono vincoli ambientali, assumono al più un banale ruolo subordinato per compilare le pratiche burocratiche.
Anche la stessa competenza ingegneristica è quasi sempre limitata all’idraulica, senza considerare gli ormai consolidati approcci dell’ingegneria naturalistica.
I Consorzi di Bonifica si vantano di gestire il territorio e le sue acque per “migliorarli”, ma in molti casi sembra il contrario.
Abbiamo perciò voluto chiedere il parere e l’opinione di un esperto che di fiumi se ne intende, li studia, e soprattutto li ama, da una vita; operando su tanti corsi d’acqua in tutta Italia ha acquisito una notevole conoscenza dei loro ambienti, una profonda esperienza e una visione d’insieme delle loro problematiche.
Maurizio Bacci è Ingegnere Ambientale (il primo storicamente laureato in Italia), da oltre 30 anni si occupa di riqualificazione fluviale, valutazione d’impatto ambientale, ingegneria naturalistica, turismo ecosostenibile, educazione ambientale. Ha coperto ruoli per istituzioni e associazioni nazionali, curato numerosi progetti e studi, svolto docenze universitarie e pubblicazioni, è inoltre fondatore del CIRF (Centro Italiano di Riqualificazione Fluviale).
 
Ingegner Bacci, cosa ne pensa della gestione fluviale in toscana? Stiamo andando verso un miglioramento della qualità ecologica dei nostri fiumi e torrenti?
La situazione dei fiumi in Toscana è nel complesso negativa, tranne i tratti montani, laddove sono stati risparmiati da briglie, impianti idroelettrici, cave e prelievi per gli acquedotti. C’è un grosso problema di fondo: salvo qualche eccezione, si vede solo il rischio idraulico e si interviene perlopiù con la realizzazione di opere e interventi sugli alvei invece che col riassetto del territorio e la riqualificazione urbanistica. Ciò in molti casi determina da un lato un effetto opposto alle aspettative, con incremento dello stesso rischio e della vulnerabilità del bacino;  dall’altro lato si provocano perturbazioni e modifiche ad un sistema complesso: basti pensare alla riduzione della capacità delle falde acquifere, alla fauna ittica che viene danneggiata e, più in generale, a una perdita di biodiversità e un danno alle attività che dipendono dalla qualità delle acque e dell’ambiente naturale, come la pesca, il turismo, l’utilizzo dell’acqua potabile o a scopo agricolo. Si opera molto spesso con interventi puntiformi, che, oltre a risolvere solo parzialmente e temporaneamente i problemi locali, accelerano la velocità delle acque aumentando il rischio a valle. Per essere più chiaro, farò un esempio: se taglio a raso due chilometri di alberi in alveo e sulle rive, alla successiva piena in quel tratto aumenterà l’erosione e l’instabilità delle sponde, perché non c’è più la vegetazione che consolida il suolo, e a valle la corrente di piena arriverà con più violenza e maggior carico solido (detriti trasportati).  Questo ovviamente non vuol dire che non si deve mai né tagliare alberi né costruire difese, ma tali interventi devono essere realizzati solo dove l’importanza del danno è superiore al costo ambientale ed economico e previa dimostrazione scientifica dell’impossibilità di alternative migliori.
 
Ci sono alternative ai progetti sbandierati come emergenze o come soluzioni ai rischi idraulici che hanno prodotto danni ambientali e molte proteste?
Certo! Prima di tutto un’alternativa di metodo: si deve smettere di inseguire le emergenze, pianificando la riqualificazione idrogeologica e contestualmente ambientale dei bacini idrografici, in modo da limitare al minimo gli interventi puntuali urgenti. In pratica: in primis, limitare i problemi a monte, ovvero riqualificare i boschi, evitare l’erosione dei suoli con un’agricoltura attenta al problema, controllare il dissesto idrogeologico diffuso con microinterventi leggeri, favorire le aree di laminazione in modo che il fiume possa sfogarsi rallentando la propria velocità e diminuendo la potenza. Basterebbe applicare i concetti della pianificazione di bacino, giuridicamente introdotta nel 1989 con la storica legge 183, ottima legge sulla carta che però è stata applicatata solo parzialmente e in modo molto “diluito”, per restare sulla terminologia idrica.
La priorità è difendersi tramite la natura stessa del fiume, ridandogli lo spazio vitale, in modo che espleti le sue dinamiche geomorfologiche e dissipi l’energia delle piene trovando il suo equilibrio, con lanche, meandri, la riapertura di corsi d’acqua tombati (cioè coperti da edificazioni e strade), l’abbattimento di strutture antropiche realizzate in modo erroneo in aree alluvionabili. Infine, quando è necessario realizzare opere di difesa o di protezione, è opportuno possibilmente ricorrere alla natura stessa, attraverso l’ingegneria naturalistica, che utilizza la vegetazione per stabilizzare le sponde, rendendole così più forti per resistere all’azione della corrente e rallentare le piene.
 
Ciò di cui stai parlando è applicabile e applicato già in qualche realtà? Ci sono esempi concreti?
Ci sono numerosi esempi di come questi approcci siano stati applicati da anni e con successo, soprattutto in molti paesi europei e anche nel nord Italia. Per citarne alcuni: il progetto Life sulla Drava (Austria) nel quale per 40 chilometri è stato dato spazio al fiume con l’eliminazione delle aree cementificate, la creazione di aree di laminazione per ridurre i picchi di piena, la realizzazione di aree umide, dove l’acqua si depura naturalmente e ricarica le falde acquifere; il fiume oggi ha riconquistato una naturalità diffusa, con ampi benefici anche per la fruizione dei residenti e il turismo. Diversi Paesi o regioni hanno attuato piani e metodi operativi per la manutenzione sostenibile dei corsi d’acqua in aree antropizzate, per esempio in Danimarca, Francia, Germania, Svizzera, Inghilterra. Numerosi esempi si possono consultare presso il CIRF, Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale (www.cirf.org), associazione no profit con finalità scientifiche e culturali, oppure sul sito dell’analoga associazione europea www.ecrr.org. Io stesso ho curato alcuni progetti interessanti, in Toscana e altre regioni italiane, e sono senz’altro disponibile a fornire documentazione a chiunque fosse interessato.
 
Gli ultimi mesi sono stati estremamente critici per siccità e caldo torrido e si sono palesate le falle della gestione idraulica. Quali sono le soluzioni per combattere gli effetti dei cambiamenti climatici? Le dighe proposte da più parti in Toscana sono una valida soluzione?
Il problema della carenza di risorse idriche è dovuto principalmente alla crescita di attività antropiche senza adeguate valutazioni preventive della loro sostenibilità rispetto, oltre al rischio idraulico, alla disponibilità e tutela delle acque, creando quindi situazioni critiche e ad elevata vulnerabilità, aggravate dagli effetti dei mutamenti climatici. Prima di tutto quindi è necessario attuare una pianificazione finalizzata alla riduzione degli sprechi nel breve termine e che cerchi di tenere l’acqua all’interno dei sistemi naturali, invece che farla fluire velocemente verso il mare, come continuano a ritenere molti “tecnici” ed enti gestori del territorio. Con la realizzazione di dighe e sbarramenti si agisce ancora come se la disponibilità di acqua fosse illimitata, togliendo politiche e finanze all’uso sostenibile e razionale. Inoltre, si alterano irreversibilmente gli equilibri idromorfologici e biologici di interi bacini, accentuando gli stessi squilibri sulle risorse idriche vallive. Molti asseriscono che tutto ciò sia il prezzo da pagare per disporre di acqua eccellente e abbondante, ma non tengono conto che il sistema diviene più fragile e meno elastico, quindi meno resiliente, ovvero meno capace di superare le crisi create, per esempio, dai cambiamenti climatici. Crisi che possono essere talmente gravi da far collassare in modo imprevedibile un sistema artificiale. Per fare un esempio, ci sono bacini artificiali che, con i cambiamenti climatici e i consumi dissennati che sono proseguiti indisturbati, sono andati in crisi a causa dell’interramento, determinato dai problemi di degrado del territorio precedentemente evidenziati, e dei fenomeni di eutrofizzazione, dovuti all’inquinamento da nitrati e fosfati usati in agricoltura, che rende l’acqua priva di ossigeno e quindi inutilizzabile. Bisogna quindi valutare prima la complessità del sistema sempre con un approccio vasto e completo a fronte della complessità della natura e dell’imprevedibilità degli effetti dei mutamenti climatici. Va detto però che, in alcuni contesti e previe valutazioni preventive, può essere interessante un modello basato sull’integrazione delle risorse, con la realizzazione di piccoli bacini inseriti nell’ambiente e, possibilmente, ad uso plurimo (p.e.: rilascio del minimo deflusso vitale, antincendio, habitat umido, fruizione, pesca).
 
Cosa si dovrebbe fare a livello politico e a livello popolare per migliorare la situazione? I “contratti di fiume” sono un’opportunità? In Toscana qualcosa si è mosso?
Oltre che sul piano tecnico è necessaria un’evoluzione culturale a tutti i livelli. Ci vuole una condivisione, un dibattito pubblico che riporti al centro i fiumi e le acque in tutta la loro interezza. Le scuole dovranno essere protagoniste in tutto questo processo. Il contratto di fiume, promosso a livello europeo, è un sistema di regole in cui i criteri di utilità pubblica, sostenibilità ambientale, valore sociale e rendimento economico intervengono alla pari nella ricerca di soluzioni per la riqualificazione e gestione di un bacino fluviale. Prevede una collaborazione tra vari enti nella programmazione e coinvolgimento delle comunità locali, Comuni, associazioni ambientaliste e culturali e così via. Sarebbe un naturale sviluppo partecipato dei processi, sia culturali che politici, dei territori fluviali, un sistema che permetterebbe di affrontare questi argomenti in modo condiviso sin dall’inizio del percorso, dalla pianificazione alla gestione.
Tutto ciò può funzionare solo se si rispettano principi di equità e trasparenza da parte di tutti, senza nessuna imposizione (le “regole del gioco”). Alcuni Consorzi di Bonifica toscani inizialmente si sono elevati a promotori e coordinatori dei contratti di fiume, ma poi sono stati i primi a non rispettarne le regole. Hanno propagandato i contratti di fiume per poi abbandonarli evidentemente sia per “sconvenienza politica” che per incapacità gestionale; forse hanno capito che uno strumento di democrazia partecipata gli avrebbe fatto perdere il controllo politico sulla gestione dei fiumi. Ritengo che questo atteggiamento sia molto grave, in quanto ha fatto perdere la fiducia e la speranza a cittadini volontari ed enti locali che erano stati coinvolti in un percorso apparentemente propositivo e anche appassionante. Inoltre, dato che a livello regionale non c’è stata una presa di posizione né un’azione per recuperare e prendere in mano tale processo, si stanno perdendo opportunità di agire in modo sinergico e condiviso, lasciando continuare indisturbati i Consorzi nella loro modalità inadeguata ai tempi e alle esigenze dell’ambiente e della società.
 
A proposito dei Consorzi di Bonifica, hanno davvero un rapporto con il territorio? Il loro ruolo è coerente con le esigenze e come viene svolto?
La presenza di uffici operativi territoriali per la gestione idrogeologica e ambientale è senz’altro fondamentale, per evidenti condizioni e criticità fisiche, ambientali e sociali presenti, sia in pianura che in montagna; ed è importante il loro rapporto diretto con i contesti locali, sia ambientali che politico-sociali. Il problema è che i Consorzi di Bonifica, che, al di là della loro identificazione giuridica e amministrativa, potrebbero assumere tale ruolo di gestione della manutenzione ordinaria del territorio, in realtà entrano in merito anche alla pianificazione dell’assetto idrogeologico e alla progettazione di opere straordinarie. Purtroppo però le progettazioni le fanno come se si trattasse di semplice manutenzione, con molta superficialità, visione parziale delle problematiche e semplificando analisi e valutazioni preventive, soprattutto sull’ambiente. E questo non è coerente né con le esigenze stesse, né con l’evoluzione scientifica e culturale degli ultimi decenni (multicriterialità) e neppure con la normativa in materia; in pratica agiscono quasi come cinquant’anni fa e lo fanno quasi sempre indisturbati, a parte il solo nulla osta idraulico.
 
Dalle parole dell’Ingegner Bacci si trova conferma di come la lotta intrapresa dal WWF e dalle tante associazioni e comitati per la difesa dei fiumi, abbia ben più che un fondamento. Come già ribadito dal Presidente del WWF Siena, Tommaso Addabbo, “è necessario rivedere alla base i concetti con i quali operano i Consorzi di Bonifica ed instaurare finalmente un dialogo con il territorio, fondato su trasparenza e qualità tecnico-scientifica dei processi decisionali. Questo è l’unico modo per realizzare scelte condivise che abbiano come primo obiettivo la salvaguardia dei fiumi e con essi anche la salvaguardia delle comunità, che nella quasi totalità dei casi risulta diretta conseguenza di metodi ed approcci rispettosi della natura. Gli strumenti ci sarebbero, manca invece la consapevolezza e la volontà politica, che anzi è spesso distorta verso obiettivi inutili e dannosi”.
     
Quanta acqua dovrà ancora passare sotto i ponti prima che si capisca l’importanza e il valore della naturalità dei nostri fiumi?  
 

La natura chiama. E a volte scrive anche. Iscriviti alla newsletter WWF

Utilizziamo cookie tecnici, indispensabili per permettere la corretta navigazione e fruizione del sito nonché, previo consenso dell’utente, cookie analitici e di profilazione propri e di terze parti, che sono finalizzati a mostrare messaggi pubblicitari collegati alle preferenze degli utenti, a partire dalle loro abitudini di navigazione e dal loro profilo. È possibile configurare o rifiutare i cookie facendo clic su “Configurazione dei cookie”. Inoltre, gli utenti possono accettare tutti i cookie premendo il pulsante “Accetta tutti i cookie”. Per ulteriori informazioni, è possibile consultare la nostra cookies policy.