La storia del Bisfenolo A
“Attenzione, la plastica del biberon è cancerogena”, “Il veleno nel biberon”. Questi titoli, apparsi su quotidiani nazionali alla fine del 2000, non erano semplice allarmismo. Bensì l’apice di una battaglia scientifica e politica durata un decennio, che ha portato fino alla messa al bando di una delle sostanze più onnipresenti del ‘900: il Bisfenolo A (BPA), minaccia silenziosa che si nasconde nel cuore della nostra quotidianità. La sua storia è un manuale di come l’evidenza scientifica, spesso contrastata, possa fare da fulcro di un cambiamento epocale.
Ma facciamo un passo indietro.
Sintetizzato per la prima volta nel 1891 dal chimico Aleksandr Pavlovich Dianin, passano circa quarant’anni prima che si comincino a valutarne i primi ambiti di applicazione. Il BPA viene inizialmente studiato come estrogeno sintetico. Scartato poi in ambito medico, trova nuova vita nell’industria delle plastiche degli anni ’50, come componente del policarbonato a cui conferisce trasparenza, resistenza e indistruttibilità. Il BPA entra così in ogni casa, ovunque nel mondo: biberon, bottiglie d’acqua, stoviglie, scatolette di tonno o pelati in forma di rivestimento, giocattoli, persino nella carta termica degli scontrini.

La scoperta che cambia tutto
Negli anni ’90, il ricercatore David Feldman scopre che il BPA rilasciato dai contenitori in plastica può imitare gli ormoni naturali, alterando la crescita cellulare. Poco dopo, Frederick vom Saal dimostra che dosi minime di BPA — fino a 50 volte inferiori alla soglia considerata sicura — sono sufficienti per simulare l’effetto degli estrogeni naturali e interferire con il sistema endocrino dei topi. Le gabbie di policarbonato usate nei laboratori rilasciavano quantità di BPA capaci di provocare anomalie al sistema riproduttivo sfidando il principio tossicologico secondo cui “la dose fa il veleno”.
Il caos
L’industria reagisce. L’American Chemistry Council e i principali produttori contestano le metodologie delle ricerche di Vom Saal e minimizzano i rischi dietro lo scudo retorico “Non ci sono prove conclusive sull’uomo”. Ma il danno d’immagine era ormai compiuto. Nel 1996 la FDA – U.S. Food and Drug Administration- pubblica la sua prima valutazione sull’esposizione degli americani al BPA, legata al consumo di alimenti in scatola. Gli esperti sottolineano subito un punto cruciale: la contaminazione non dipendeva dal cibo in sé, ma dai rivestimenti interni delle lattine, realizzati con materiali contenenti BPA. Mentre l’industria si attarda a dibattere sulle soglie di sicurezza, il Bisfenolo A compie una silenziosa contaminazione globale, accumulandosi negli animali selvatici, persino in quelli che vivono in ambienti remoti e isolati.
Il ruolo di ONG e comunità scientifica
La comunità scientifica, insieme a numerose ONG, tra cui il WWF, contribuisce ad ampliare le ricerche sugli effetti del BPA. Uno studio del 2005 pubblicato su Environmental Science & Technology rivela che le foche del Nord Europa, esposte a livelli elevati di Bisfenolo A e altri interferenti endocrini attraverso la catena alimentare, mostravano un’incidenza maggiore di malformazioni ossee e uterine. Studi successivi ipotizzano un legame tra l’esposizione a queste sostanze e il crollo delle popolazioni di orche e delfini, predatori apicali che agiscono come veri e propri concentratori di inquinanti. Nel Mediterraneo, capodogli e balenottere accumulano BPA trasmesso lungo la catena alimentare nel tessuto adiposo, con effetti sul sistema immunitario e sulla riproduzione. Nell’Artico, il BPA raggiunge persino gli orsi polari, compromettendone il sistema endocrino, la fertilità e la salute generale. Tracce di BPA sono state rilevate anche nei pesci dei laghi più isolati e negli uccelli marini delle coste più remote, spesso associate ad anomalie nello sviluppo e a una ridotta fertilità. Questi sono solo alcuni esempi: le prove si moltiplicano, tracciando un quadro sempre più inquietante e globale.

Il punto di svolta
La fauna selvatica diventa sentinella della salute del Pianeta, lanciando un allarme chiaro e inconfutabile: l’inquinamento chimico da plastica è ormai ovunque e l’essere umano non ne è immune. Nell’uomo, infatti, il BPA è associato a problemi riproduttivi, alterazioni dello sviluppo cerebrale nei bambini, obesità, diabete e malattie cardiovascolari. La principale via di esposizione? Gli alimenti, contaminati dalla migrazione del BPA dagli imballaggi in plastica, soprattutto se riscaldati o riutilizzati.
La pressione pubblica gioca qui un ruolo decisivo. Dopo il clamore suscitato dai biberon, il mercato risponde con prodotti “BPA-Free”, e le istituzioni seguono. Il Regolamento UE 10 del 2011 vieta il BPA nei prodotti per l’infanzia, mentre il Regolamento REACH lo inserisce tra le sostanze estremamente preoccupanti. Nel 2023, l’EFSA propone una riduzione drastica della dose giornaliera tollerabile di BPA: 20.000 volte più bassa rispetto al limite precedente. Nel 2024, l’UE ne vieta l’uso nei materiali a contatto con alimenti, segnando una svolta normativa storica.

Eppure, la battaglia non è finita. I sostituti del BPA, come il Bisfenolo S e F, sollevano preoccupazioni simili poiché potrebbero agire allo stesso modo sul sistema endocrino. Serve un cambio di paradigma: non basta vietare una molecola alla volta. Occorre regolamentare intere classi di sostanze, affrontando il problema alla radice.
Cosa abbiamo imparato
La storia del BPA ci insegna che la sicurezza chimica è una corsa ad ostacoli. Le istituzioni devono essere agili, la scienza ascoltata anche quando scomoda, e il potere dei consumatori responsabili, può essere il motore più potente del cambiamento. A trasformare l’allarme in consapevolezza collettiva ci hanno pensato anche realtà come il WWF, che hanno saputo tradurre la complessità scientifica, informare il grande pubblico e mobilitare l’opinione pubblica.
La storia del bisfenolo A non è solo quella di una molecola, ma il simbolo di un problema più vasto: la dispersione incontrollata della plastica. Come il WWF ha denunciato e denuncia da anni, decenni di inefficienze nella gestione dei rifiuti hanno permesso a microplastiche e sostanze chimiche di infiltrarsi in tutti gli ecosistemi, dai fiumi alle profondità oceaniche, fino ai poli. Il BPA ci ha insegnato una lezione chiara: ciò che disperdiamo in Natura non scompare, rientra nei cicli biologici, contaminando animali e persone. E la storia rischia di ripetersi con i nuovi materiali e i sostituti del BPA, se non sapremo affrontare il nodo cruciale. La plastica non è mai davvero ‘usa e getta’: ciò che abbandoniamo oggi, ci raggiunge domani, trasformato in minaccia persistente.
“Storie di sostenibilità” è la nuova rubrica del WWF nell’ambito della campagna Our Future