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Veleni silenziosi, il lato oscuro del DDT

Una nuova “Storia di sostenibilità” nell’ambito della campagna Our Future del WWF: dai contaminati di ieri a quelli moderni

E un insegnamento per il futuro

Diclorodifeniltricloroetano. Un nome così complesso per una formula ben nota. La storia del DDT, che sembra così lontana, è più attuale che mai. È il 1874, quando il giovane chimico austriaco Othmar Zeidler lo sintetizza per la prima volta, il DDT rimane quasi dimenticato fino al 1939. È il chimico svizzero Paul Hermann Müller a scoprirne le potenti proprietà insetticide e la sua efficacia straordinaria. Il DDT agiva per contatto, aveva una bassa tossicità acuta per i mammiferi e, soprattutto, era incredibilmente persistente. È proprio la persistenza, all’inizio celebrata come un vantaggio, che rivelerà il suo lato oscuro. Il DDT è infatti un inquinante organico capace di resistere alla degradazione per decenni, accumularsi nei tessuti adiposi e magnificarsi lungo la catena alimentare, ossia diventare sempre più concentrato man mano che si passa dagli organismi più in basso a quelli più in alto nella catena alimentare.

Ma facciamo un passo indietro.

Il miracolo durante la guerra

A metà ‘900 il DDT si rivela decisivo contro tifo e malaria poiché efficace contro un’ampia varietà di parassiti, tra cui il pidocchio (che all’epoca era uno dei principali vettori del tifo), lo scarabeo del Colorado (flagello delle coltivazioni di patata) e la zanzara anofele, responsabile della trasmissione della malaria. A metà degli anni ’40 a Napoli, il DDT viene usato per reprimere un focolaio di tifo: per la prima volta nella storia un’epidemia di questa malattia venne arrestata. Nello stesso periodo, la sperimentazione prosegue a Ostia, estendendosi al delta del Tevere e alla zona sud-orientale della Pianura Pontina, territori storicamente colpiti dalla malaria. In Sardegna, infine, per cinque anni vengono distribuite oltre 70.000 tonnellate di DDT con l’obiettivo di eradicare la zanzara Anopheles labranchiae, vettore della malattia. I casi di malaria crollarono quasi a zero.

Il DDT diventa simbolo di progresso e modernità. Le immagini di aerei e camion che spruzzano nuvole di pesticida nei parchi, tra bambini che giocano, riflettono l’euforia di quegli anni per le nuove conquiste della scienza. Nel 1948, Paul Hermann Müller riceve il Premio Nobel per la Medicina con la motivazione che il DDT aveva “portato benefici immani all’umanità, salvando milioni di vite”. 

I primi segnali d’allarme 

Alla fine degli anni ’50 arrivano i primi segnali d’allarme. Lo studioso statunitense Joseph Hickey osserva un drastico declino nelle popolazioni di falchi pellegrini e aquile calve a causa di gusci d’uovo sottili e fragili, che si rompevano sotto il peso dei genitori durante la cova compromettendone così la riproduzione. La colpa era del DDE, il metabolita del DDT che permaneva nell’ambiente e interferiva con il sistema ormonale degli uccelli, impedendo il corretto assorbimento del calcio necessario alla formazione di gusci robusti.

Primavera silenziosa

In questo clima di crescente preoccupazione, nel 1962 la biologa Rachel Carson pubblica “Primavera Silenziosa”, il libro che segna una svolta nella consapevolezza ambientale. La Carson denuncia il lato oscuro dell’uso massiccio dei pesticidi: gli insetticidi non solo eliminano gli insetti nocivi, ma si diffondono nell’ambiente e lungo le catene alimentari, colpendo anche uccelli, pesci e altre specie. Il libro mette in luce come tutti gli esseri viventi siano strettamente interconnessi e interdipendenti, e trasforma l’allarme scientifico in un vero e proprio movimento di opinione pubblica globale.

Le ripercussioni, però, non riguardavano solo la natura. Già alla fine degli anni Quaranta si osservano tra i lavoratori esposti al DDT, disturbi neurologici acuti come tremori, vertigini e nausea. Negli anni ’50 e ’60 diventa evidente che il DDT si accumula nel tessuto adiposo e nel latte materno, raggiungendo anche persone non direttamente esposte e prolungando l’esposizione per anni

La risposta dell’Industria

Critiche feroci arrivano dalle industrie produttrici di pesticidi: cercano di screditare la Carson, mettendone in dubbio le competenze e l’attendibilità delle sue ricerche. Tuttavia, la sua denuncia — fondata su centinaia di studi e dati scientifici — colpisce nel segno e raggiunge la cultura popolare. I cittadini chiedono risposte e tutele. In questo contesto, organizzazioni ambientaliste come il WWF, fondato nel 1961, assumono un ruolo decisivo: finanziano ricerche indipendenti sugli effetti del DDT, promuovono campagne di sensibilizzazione e fanno pressione sui governi per regolamentarne l’uso.

I divieti

Nel 1972 l’EPA (Environmental Protection Agency) vieta la maggior parte degli usi del DDT negli Stati Uniti, segnando una svolta decisiva nelle politiche ambientali. Poco dopo anche l’Italia ne bandisce l’uso, la vendita e la detenzione, ponendo fine a decenni di impiego diffuso. Nel 2001 la Convenzione di Stoccolma sugli Inquinanti Organici Persistenti inserisce il DDT nella “lista nera” delle sostanze da eliminare a livello globale, pur consentendo deroghe nei Paesi senza alternative efficaci ed economicamente accessibili per il controllo della malaria.

Il ritorno dell’Aquila

I dati confermano le tesi della Carson. Negli anni ’60, la popolazione di aquila calva negli Stati Uniti continentali era ridotta a circa 400 coppie nidificanti anche a causa dell’uso del DDT. Dopo il divieto del pesticida nel 1972 e all’avvio di programmi intensivi di protezione, la tendenza si invertì rapidamente. Nel 2007, la popolazione superava le 11.000 coppie nidificanti, un successo tale da consentirne la rimozione dalla lista delle specie minacciate. 

La storia non finisce qui

Nonostante i divieti, i residui di DDT sono ancora oggi presenti nei tessuti di grandi cetacei, come capodogli e balenottere anche del Mare Nostrum, a testimonianza della straordinaria persistenza di questa sostanza nell’ambiente. Tracce di DDT sono state individuate anche lungo la catena alimentare, in particolare in specie ittiche destinate al consumo umano.  Durante la campagna “Detox” del 2005, ricerche finanziate dal WWF hanno rilevato residui significativi di DDT sia nei tonni e pesci spada sia nel sangue umano, evidenziando come questa sostanza continui a essere rilevabile a decenni di distanza dal suo divieto.

Il glifosato e la lezione che non abbiamo ancora imparato

La storia del DDT dimostra che anche soluzioni apparentemente efficaci possono comportare conseguenze a lungo termine per ambiente e salute, evidenziando l’importanza di valutazioni scientifiche rigorose prima della loro diffusione. Quello che accadde allora è il simbolo per tante battaglie ambientali di oggi: è la parabola dell’entusiasmo per una tecnologia potente, dell’allerta scientifica indipendente e della mobilitazione civile. La lezione del DDT è più attuale che mai. Sostanze come il glifosato e altri pesticidi, ancora presenti nei nostri campi e sulle nostre tavole, sollevano interrogativi analoghi sulla sicurezza a lungo termine per l’uomo e per l’ambiente.

Se il glifosato solleva problematiche simili a quelle del DDT, non dovremmo impegnarci per trovare strategie e soluzioni migliori? Per noi, la risposta è sicuramente sì.

La video intervista a Eva Alessi sul DDT

“Storie di sostenibilità” è la nuova rubrica del WWF nell’ambito della campagna Our Future

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