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I disastri annunciati di Liguria e Toscana: disinformazione continua

A vedere le immagini dell’ennesima tragedia in Liguria, tra il Vara e il Magra, dove una valanga di fango ha sventrato case, strade e ha spezzato la vita a dieci persone (ma ci sono ancora tre dispersi), sono…

A vedere le immagini dell’ennesima tragedia in Liguria, tra il Vara e il Magra, dove una valanga di fango ha sventrato case, strade e ha spezzato la vita a dieci persone (ma ci sono ancora tre dispersi), sono assalito da una sconsolante tristezza e da un immenso sconforto.
Tristezza per la desolazione e il dolore di una Lunigiana che per natura è vulnerabile, ma che è  stata completamente resa indifesa dall’uso irresponsabile del territorio che, soprattutto in quest’ultimo secolo, ne ha alterato completamente gli equilibri idrogeologici ed ecologici.

Sconforto per la mancanza di democrazia che ormai impera in questo Paese. Si, mancanza o degenerazione della democrazia perché se non è garantita  l’adeguata informazione viene a mancare anche la possibilità di esprimersi liberamente, di partecipare e si è in balia di interessi e lobbies che nulla hanno a che fare con il bene pubblico.  Da decenni, infatti, l’informazione su queste tematiche di vitale importanza è totalmente fuorviante e falsa; le tragedie come il Vajont (1963), l’alluvione dell’Arno (1966), le alluvioni devastanti del Po (1951, 1994, 2000), del Tevere (2008), dell’Adda e della Valtellina (1987, 2002), le frane e le alluvioni in provincia di Messina (2009) e gli altri innumerevoli episodi analoghi non hanno insegnato nulla:  la colpa è sempre attribuita alla natura, alla straordinarietà degli eventi da non poter essere prevenuti o dai cambiamenti climatici globali.

E’ vero, in Liguria e Toscana tra il 25 ottobre è piovuto molto più della norma, ma è altrettanto vero che si tratta, purtroppo, di una tendenza in atto da almeno vent’anni, come testimonia un’indagine conoscitiva della 13° commissione del Senato nel 2005 (1*) che affermava come “negli ultimi 10-15 anni vi è stato un aumento degli episodi di precipitazione a carattere intenso, ma di breve durata, mentre in precedenza esisteva una prevalenza di episodi a bassa intensità ma prolungati nel tempo.” 
Inoltre, il problema, purtroppo, non è soltanto la velocità dell’acqua che si scarica sempre più velocemente a valle, travolgendo tutto e tutti, ma anche che questo tipo di eventi incide sostanzialmente sulla disponibilità idrica del bacino, in quanto le precipitazioni a bassa intensità ma prolungate, oltre a ridurre i danni su territorio e popolazioni, favoriscono il riempimento delle falde e la restituzione nei periodi estivi di portate alla rete idrografica principale. Quindi  questo evento inciderà due volte sui territori colpiti: prima con l’alluvione e le frane, poi con la riduzione della disponibilità idrica nei periodi estivi.

Anche sui cambiamenti climatici globali si sapeva già molto: nel 1970 la Commissione De Marchi, istituita a seguito dell’alluvione del 1966 di Firenze, sottolineava che è “la variazione generale del clima, posta in evidenza dal progressivo elevamento del livello marino, in conseguenza di un aumento della temperatura dell’aria, che ha provocato il ritiro dei ghiacciai alpini e lo scioglimento delle calotte polari”. Però, se è vero che sono in atto cambiamenti climatici globali, c’è da tener presente quanto emerso in un recente studio dell’Università di Venezia (2*) , nel quale sono stati caratterizzati i deflussi giornalieri alla chiusura del bacino del Po tra il 1817 e il 2005: è risultato che i prolungati periodi di siccità, dovuti alle modificazioni delle precipitazioni e dei tassi di evapotraspirazione (erosione della riserva idrica a scala di bacino) e l’intensificazione degli eventi di piena catastrofica, non dipenderebbero direttamente dal climate change bensì dalla massiccia realizzazione delle opere di difesa (argini etc) che hanno caratterizzato in quest’ultimo secolo la pianura padana.

Torniamo, però, a quanto successo in Lunigiana alla fine di ottobre. Se si dà un rapido sguardo tramite google map al Magra, si nota come si è costruito a ridosso se non dentro il fiume. Solo alla foce è possibile vedere come Bocca di Magra e Fiumaretta si affacciano al fiume, l’un di fronte all’altro, avendo occupato l’occupabile.
Ad Aulla, devastata dal fango di ottobre, nel 1959 veniva costruito un argine a ridosso del Magra, consentendo in questi ultimi 50 anni di edificare nell’area del fiume. L’argine, sinonimo di sicurezza, ha falsamente  tranquillizzato tutti, facendo dimenticare che si stava costruendo nell’alveo del fiume. In alcuni tratti del Vara, l’altro fiume  “impazzito” a ottobre, nel 1857 l’alveo attivo era largo 820 metri, nel 1954 si era ridotto a 370 e oggi è circa 140 metri!
Come si può recuperare lo spazio perduto? Pulendo e scavando nell’alveo come in molti in questi giorni hanno detto e scritto?
No perché, facendo finta che questa follia si possa fare, quanto bisognerebbe andare in profondità per consentire al fiume di defluire senza entrare nel centro abitato, 100, 300 metri?
Si confonde la normale manutenzione (che peraltro manca) con la soluzione di un problema molto più complesso e che abbiamo determinato in decenni di malgoverno del territorio.
Per questo non ci sono soluzioni facili ed immediate (se non quella di garantire sistemi di allarme che salvino la vita alle persone!): anche se ci applicassimo correttamente e subito potremo avere risposte concrete fra parecchi anni.

L’Autorità di bacino interregionale del fiume Magra 10 anni fa ha redatto il Piano di assetto idrogeologico (scaricabile dal sito internet e da cui sono tratte le informazioni sopra richiamate) partendo dallo studio delle mappe storiche del Vara, oggetto peraltro di un “progetto speciale” (sono scaricabili anche le “Indicazioni per la progettazione ambientale dei lavori fluviali” – allegato 3 al PAI), però un po’ tutte le Autorità di bacino nazionali sono state delegittimate, si sono progressivamente ridotti i finanziamenti, si è lasciato tutto in mano a politiche di emergenza e alle cabine di regia coordinate dalla Protezione civile. Il WWF purtroppo denuncia in vano da anni questa gravissima situazione.

Ma è solo la gravissima rimozione dei problemi e una diffusa deresponsabilizzazione politica che può spiegare come la Regione Liguria, nonostante sappia perfettamente dove sono ubicate le aree a rischio idrogeologico Comune per Comune, abbia approvato solo pochi mesi fa un provvedimento (Regolamento regionale n.3/2011, pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Liguria del 20 luglio 2011) che ha ridotto da 10 a 3 metri le distanze minime di edificazione vicino a molti corsi d’acqua.

Ma provvedimenti analoghi sono stati varati o in corso di approvazione in molte regioni italiane come il Veneto, nonostante sia stato colpito da un evento devastante lo scorso anno oppure la Regione Friuli Venezia Giulia che si è inventata l’individuazione  dei “corsi d’acqua irrilevanti ai fini paesaggistici” cioè quelli, così si legge nella delibera regionale , “irrimediabilmente compromessi da interventi di trasformazione o da uno stato di urbanizzazione” o quelli “modificati a seguito della regimazione del corso d’acqua o porzione dello stesso, in condotte, in modo che in superficie non risulti traccia della sua morfologia e della vegetazione ripariale”  o ancora quelli “compromessi da attività estrattive nel suo alveo”. Ebbene in questi fiumi, canali, torrenti la Regione Friuli Venezia Giulia prevede o “l’esclusione del vincolo per entrambe le fasce di tutela dei 150 mt di tratti di corsi d’acqua completamente compromessi” o “l’esclusione del vincolo per una delle fasce di 150 mt del tratto di corso d’acqua” o anche “l’esclusione del vincolo riguardante una parte marginale della fascia di tutela priva di rilevanza paesaggistica”; insomma visto che la Regione e gli enti locali sul territorio hanno evidentemente consentito la loro distruzione o, nella migliore delle ipotesi non si sono accorti che venivano danneggiati, la regione ha pensato bene di dargli il colpo di grazia, togliendogli definitivamente i vincoli, con buona pace degli obiettivi di qualità richiesti dalle direttive europee da raggiungere entro il 2015 (Direttiva Quadro Acque 2000/60/CE, Direttiva Rischi alluvionali 2007/60/CE…).

Ma nelle istituzioni italiane impera la totale deregulation su questi problemi.
Un po’ in tutta Europa il modo di intervenire sugli ecosistemi fluviali sta radicalmente cambiando: sono stati redatti e realizzati  piani di riqualificazione che, attraverso un approccio interdisciplinare, integrato e, soprattutto, a livello di bacino idrografico hanno consentito di ampliare le zone di esondazione dei fiumi (anche nelle città!), di eliminare traverse, dighe e vecchi argini, rinaturalizzare lanche e fasce boscate riparie, sono state promosse e diffuse linee guida per la gestione dell’intero reticolo idrografico basate su principi di gestione naturalistica; tutto questo in applicazione di direttive europee (Direttiva “Habitat” 43/92/CEE; Direttiva Quadro Acque, 2000/60/CE; Direttiva rischio alluvionale, 2007/60/CE) e utilizzando i fondi dell’Unione europea.
Purtroppo la mancanza nel nostro Paese di una vera democrazia, o forse la sua degenerazione determina, nonostante i disastri e le tragedie continue, favorisce il prevalere di lobbies potentissime, come quella del cemento e del mattone che, forti di obsoleti regolamenti che permettono l’urbanizzazione inutile e selvaggia (i famosi “oneri di urbanizzazione” che tanto stimolano le Amministrazioni comunali a chiedere di fare argini non per mettere in sicurezza i cittadini, ma per recuperare aree da edificare e far così cassa), continuano imperterrite a “consumare suolo” a ritmi di ettari ed ettari al giorno.

Cosa fare si sa benissimo, basterebbe copiare da quanto si stanno facendo in Austria sulla Drava o sul Lech, in Francia sulla Loira, in Germania sul Reno o in Inghilterra sul Tamigi, ma è una questione di cultura, soprattutto istituzionale che blocca il nostro Paese.
 Infatti, anche in Italia vi sono numerosi e puntiformi esempi di buona gestione dei corsi d’acqua, ma ciò che disperatamente emerge è l’assenza dello Stato e delle Regioni, che, ad esempio, in oltre 5 anni ancora non hanno trovato il modo e il tempo per mettersi d’accordo e istituire le Autorità di distretto previste dalle direttive comunitarie e che dovrebbero garantire quella visione complessiva del territorio che potrebbe farci avvicinare un po’ di più all’Europa.

Andrea Agapito Ludovici – WWF Italia
3 Novembre 2011

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(1*) Senato della Repubblica, XIV, 13°Comm.Perm (Territorio, ambiente, beni ambientali) – “Indagine conoscitiva sull’emergenza idrica dell’area del lago di Garda e nel bacino del Po.” 3° resoconto stenografico. Seduta n.44 di martedì 20 settembre 2005 

(2*) Zanchettin D., Traverso P., Tomasino M., 2008 – Po River discharges: a preliminary analysis of a 200-year time series. Climate Change, 89: 411-433.

(3*) Una legge regionale del Veneto (L.R. n. 12 dell’ 8 maggio 2009 – Nuove Norme per la Bonifica e la Tutela del Territorio) ha demandato alla Giunta Regionale il compito di scrivere «in attuazione di quanto previsto dal R.D. 8 maggio 1904 n. 368… e del capo VII del R.D. 25 luglio n. 523 … le disposizioni in materia di polizia idraulica». Regolamento che la Giunta Regionale ha varato subito dopo (allegato D della D.G.R n. 3357 del 10 novembre 2009) ma nel quale, disattendendo quanto previsto dalla legge regionale, non cita mai la norma statale più restrittiva (art. 96 R.D. 523/1904) facendo esclusivo riferimento al R.D. 368/1904.  Anche per i “corsi d’acqua pubblici” passati in gestione ai Consorzi  – assieme agli storici canali di bonifica – viene quindi applicato il regime vincolistico meno restrittivo, mentre solo per i grandi fiumi rimasti in gestione alla Regione si applica il R.D. 523/1904 e cioè la distanza minima di 10 metri.  In sostanza, in Veneto i “corsi d’acqua pubblici”, passati sotto la gestione dei Consorzi di Bonifica, hanno subito un dimezzamento della loro fascia di rispetto.

(4*) DGR 1490 del 5/8/2011

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